Forse non tutti sanno che... le Marche hanno ricoperto un ruolo di prim'ordine nell'ideazione e nella costruzione dei dispositivi del suono nuovo: tra gli anni Sessanta e gli anni Ottanta, la regione diede vita a un vero e proprio distretto musicale e sfornò una moltitudine di perle della liuteria elettronica.
Una preziosa iniziativa – a cura di Paolo Bragaglia, Leonardo Gabrielli, Agostino Maria Ticino, Riccardo Pietroni, e Daniele Marziali che insieme hanno costituito l’Associazione Acusmatiq Matme a cui si aggiungono come fiancheggiatori Claudio Capponi dell’Associazione Farfisa e Roberto Bellucci di EMI (Elettronica Musicale Italiana) – conserva le vestigia e i ricordi di un passato fulgente: si tratta del Museo del Sintetizzatore Marchigiano, museo temporaneo che propone un festival, workshop, seminari sulle tecnologie musicali e performance dimostrative con synth marchigiani "per contribuire alla diffusione della storia, dei volti e delle competenze che hanno dato e continuano a dar lustro" alle Marche.
Elka, Crumar, Farfisa, Elgam, Eko sono solo alcuni nomi dei brand che scolpirono il suono di numerosi capolavori del Novecento: dalle fucine marchigiane arrivarono "l'organo che ha caratterizzato il suono dei primi Pink Floyd – un Farfisa Compact Duo potenziato da un Echo Binson – i suoni di archi dei Duran Duran – ottenuti con un Crumar Performer – la tastiera dei Doors, il VOX Continental, la batteria elettronica di Jean-Michel Jarre...".
Per conoscere meglio questa storia affascinante ho rivolto qualche domanda a Paolo F. Bragaglia, appassionato esperto di storia del sintetizzatore marchigiano, musicista elettronico – non perderti, tre le altre, le sue Psicofonie – curatore del festival anconetano Acusmatiq, origine di Acusmatiq Matme e del "Museo".
J.M. - Nelle Marche aveva sede Farfisa che, per moltissimi anni, fu la fabbrica di strumenti musicali più grande d'Europa. Ma come ebbe inizio questa storia? Perché l'avventura del synth italiano prese vita nelle Marche e non in un'altra regione italiana?
P.F.B. - Ciao Johann sono davvero onoratissimo di questa intervista perché considero il tuo lavoro di divulgazione della musica elettronica in senso globale preziosissimo e arrivare a quello che è il nostro patrimonio nazionale nell’ambito degli strumenti elettronici mi sembra davvero una gran bella cosa. La risposta alla tua domanda è davvero molto semplice: nelle Marche prima dell’industria degli strumenti elettronici esisteva un distretto industriale musicale fiorentissimo legato alle fisarmoniche e quando si è manifestata l'esigenza di evolvere senso tecnologico la produzione, dapprima sono arrivati gli organi, poi le tastiere e alla fine anche i sintetizzatori. Farfisa significa “FAbbriche Riunite FISArmoniche”.
J.M. - Per vendere i suoi primi sistemi modulari, Bob Moog impiegava una discreta quantità di azioni commerciali: partecipava alle fiere e ai raduni musicali nelle università americane, proponeva endorsment a band e compositori che usavano i suoi sistemi in concerti e album (tra i primi: Wendy Carlos e Mother Mallard's Portable Masterpiece Company) o, ancora, si affidava a speciali "venditori d'assalto" come Paul Beaver e Bernie Krause, che allestivano stand informativi e di vendita durante celeberrimi festival (uno su tutti: l'edizione del 1967 del Monterey Pop Festival). Come fecero i brand italiani a raggiungere band come Pink Floyd o Jean-Michel Jarre?
P.F.B. - Le fiere e i distributori sono sempre esistiti e anche che in quegli anni c’erano valenti distributori nei paesi di origine di questi musicisti capaci di convincerli ad adottare i nostri strumenti italiani. Conosco personalmente degli straordinari dimostratori capaci di stregare intere platee suonando musica di ogni genere, come ad esempio il grande Marcello Colò, un autentico ambasciatore degli strumenti nostrani!
J.M. - A proposito di Jarre, ho letto nel vostro sito web che impiegava dispositivi marchigiani per la costruzione delle sue sezioni ritmiche...
P.F.B. - Jarre è stato uno dei pochissimi musicisti ad adottare all’epoca dell’introduzione sul mercato la celebre rarissima e misconosciuta Eko ComputeRythm del 1972 che è stata niente di meno che la prima batteria elettronica programmabile della storia, con un sistema di pattern a 16 step, lo stesso che poi otto anni dopo nel 1981 fu adottato da Roland nella celeberrima TR808 ed è a tutt’oggi ancora lo standard mondiale per programmare le parti ritmiche. La cosa straordinaria è che i creatori di questa macchina incredibile ricordavano a malapena di averla fatta…
J.M. - Quali furono i più celebri ambasciatori musicali dei prodotti del distretto marchigiano?
P.F.B. - Molti tra i più importanti li hai già citati. I Pink Floyd con il loro Live at Pompei hanno sicuramente dato una visibilità straordinaria all’organo Compact Farfisa. Poi Jean Miche Jarre che oltre alla Eko ComputerRhythm era un avido utilizzatore del celebre synth polifonico Elka Synthex con il quale realizzò il timbro della sua celeberrima “arpa laser” e poi abbiamo anche i Kraftwerk che in Autobahn usano un pianoforte elettronico Farfisa. Nell’era del krautrock e dell’elettronica cosmica in Germania sono davvero parecchi… E poi se vai spulciare vedi che in tantissimi – dai Led Zeppelin a James Brown, dai Radiohead ad Apex Twin, dai Boards of Canada ai Portishead – hanno usato un synth, organo o string machine ( o meglio “tastiera violini”) nata tra le nostre colline.
Ma che cosa accadde poi alla produzione dei synth marchigiani?
J.M. - Negli anni Ottanta molte ditte produttrici smisero la loro attività...
P.F.B. - Il modello di sviluppo delle aziende marchigiane che discendeva direttamente dall’industria della fisarmonica non fu in grado di sopportare l’offensiva nipponica che ormai viaggiava a suon di sintetizzatori digitali come il DX7. I Giapponesi spadroneggiavano in tutti gli ambiti musicali a livello mondiale con dei progetti assolutamente innovativi. Vi fu certamente da parte nostra un problema di scarso tempismo e di incapacità di competere sul fronte della ricerca tecnologica, complice anche un’attitudine imprenditoriale piuttosto legata al passato. Tutto ciò sferrò un duro colpo al distretto marchigiano che comunque continua essere vivo e pulsante.
J.M. - Da collezionista, qual è il pezzo più raro della produzione marchigiana in cui ci si potrebbe imbattere?
P.F.B. - La Eko ComputerRhythm è sopravvissuta in circa 15 esemplari in tutto il mondo, Ci sono synth come l’Oberon o l’Uranus2 della CRB di Ancona dei quali è certificata l’esistenza di non più di 4 o 5 esemplari e sempre della CRB c’è il gigantesco Uranus 1, unico esemplare del quale si sono perse le tracce, Poi c’è il VocalSynth della Logan, con tre esemplari esistenti… Il raro e ricercato Spirit della Crumar, progettato da Bob Moog ed esistente in 350 esemplari, senza contare i synth in esemplare unico, come l’enorme Welson Symphony dell’amico Daniele Marziali o il Milton Gemichord in possesso del nostro Riccardo Pietroni.
J.M. - Come mai, secondo te, non si parla spesso della storia del sintetizzatore marchigiano?
P.F.B. - Perché l’Italia era un po’ marginale nella musica pop rock e comunque pur avendo prodotto degli strumenti eccellenti la nostra era un po’ un'industria derivativa, che nasceva dall’organo elettronico e non riuscì mai a focalizzarsi sulla produzione di synth in maniera costante, assidua come fecero tante aziende americane o giapponesi che avevano una presenza sul mercato molto più cospicua. Il Museo nasce proprio con la volontà di far conoscere questa realtà, un po’ marginale ed esoterica ma molto affascinante.
J.M. - Il Museo del Synth Marchigiano è senza dubbio un'iniziativa preziosa: cosa avete in serbo per il 2021? Avete già dei programmi?
P.F.B. - Quest'anno, causa pandemia, il Museo sarà basato sulla realizzazioni di video performance da divulgare sul nostro neonato canale YouTube. Mentre per il prossimo anno ci sono delle belle iniziative di respiro internazionale che però attualmente non posso annunciare perchè ci stiamo ancora lavorando. Restate sintonizzati!
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Per saperne di più:
Letture nel web
• Museo del Synth Marchigiano [principale fonte di questo articolo]
• Storia delle Storie a cura di Claudio Capponi
• l'articolo di Audio Central Magazine a cura di Enrico Cosimi
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